21
Nov
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è pronunciata con una sentenza definitiva su un tema molto delicato e dibattuto, quello della denominazione di prodotti di origine vegetale e dell’uso – fino ad oggi considerato legittimo – di terminologie che richiamano gli alimenti provenienti invece dagli animali.
“I prodotti puramente vegetali non possono, in linea di principio, essere commercializzati con denominazioni, come «latte», «crema di latte o panna», «burro», «formaggio» e «yogurt», che il diritto dell’Unione riserva ai prodotti di origine animale”.
Questo il contenuto della sentenza con cui la Corte Europea mette di fatto la parola fine (da ora in avanti, la norma infatti non è retroattiva) a nomi di prodotto come il latte di soia, perché il termine “latte” può essere utilizzato solo per “il prodotto della secrezione mammaria normale, senza alcuna aggiunta o sottrazione”. Per i prodotti vegan simili al latte si dovrà pertanto utilizzare la dicitura “bevanda vegetale a base di”, come già avviene oggi in Italia.
L’Unione Europea ammette però delle eccezioni: latte di cocco, latte di mandorla e burro di cacao non sono messi al bando, in quanto considerate denominazioni tradizionali. Tutti gli altri prodotti non di derivazione animale invece (come la soia o il tofu) non potranno più chiamarsi “latte”, “yogurt”, “burro”, “formaggio”, e simili.
Questo per quanto riguarda il latte e i suoi derivati. E le carni? Ragionando nella stessa ottica della sentenza della Corte Europea, risulterebbero a rischio bando tutte le denominazioni come “ragù vegano”, “pancetta vegetariana”, “mortadella veggie”, ecc.
La questione non è però così semplice. In risposta a un’interrogazione di due eurodeputati italiani, Giovanni La Via e Paolo De Castro, nel novembre 2016 la Commissione Europea si era espressa sul dibattito relativo al cosiddetto meat sounding, vale a dire i prodotti alternativi alla carne e l’impiego di denominazioni chiaramente provenienti da quel mondo, spesso accusate di essere fuorvianti o ingannevoli.
La Commissione ha decretato che termini quali “bistecca”, “cotoletta”, “fettina” e similari non rappresentano un problema di trasparenza e chiarezza e possono pertanto essere utilizzati liberamente anche per i prodotti vegani, fatta eccezione per le denominazioni espressamente tutelate.
Quest’ultima discriminante mette al riparo dal meat sounding i prodotti IGP e DOP. In definitiva, continueremo a trovare sugli scaffali dei supermercati l’affettato vegetale e lo spezzatino di soia, ma non la bresaola vegana. Per fortuna.