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A pensarci bene i salumi sono un ingrediente non solamente dei piatti che cuciniamo ogni giorno (vuoi provare nuove ricette con i salumi? Clicca qui) ma parte integrante della nostra vita quotidiana, anche nel parlato: sono infatti diffusi i modi di dire e i riferimenti linguistici che vedono i salumi e gli affettati protagonisti. Ecco i più comuni e le loro origini.
Essere paragonato a un salame non è indice del godere di buona considerazione da parte di chi pronuncia la frase: “sei un salame” si dice a qualcuno che è particolarmente imbranato o sbadato ed ha appena combinato qualche disastro. Ma perché si usa proprio il salame come termine di confronto per una persona non esattamente acuta? Secondo una ricostruzione dei linguisti ciò si spiegherebbe con le antiche origini della parola salame, che ancora prima di denotare il salume insaccato di maiale come è oggi veniva utilizzata per indicare il pesce sotto sale (baccalà o stoccafisso), detto appunto “salamen”: e il termine “baccalà” ancora ai giorni nostri è impiegato come epiteto denigratorio per definire persone dure di comprendonio, proprio come dura era la consistenza del pesce sottoposto a salagione.
Invece il salame odierno è un salume spesso morbido, di gran gusto, prodotto con sempre meno sale e attento anche alla linea: tanto che, quasi quasi, essere un salame oggi può considerarsi un complimento.
Conosciuto anche nella versione “avere le fette di salame sugli occhi” (o davanti agli occhi) o addirittura in una tradizione più aulica “gli occhi foderati di prosciutto”, questo modo di dire diffuso in tutta Italia – come del resto il prosciutto a cui si ispira – è utilizzato per le situazioni in cui qualcuno non si accorge di qualcosa che è in realtà particolarmente evidente. Di conseguenza, l’espressione “hai le fette di prosciutto sugli occhi?” è spesso usata in tono di rimprovero per far notare la sbadataggine del proprio interlocutore, oppure con accezione negativa può lasciare anche intendere una negazione dell’evidenza voluta e colpevole.
Insomma, meglio avere le fette di prosciutto in altre parti del viso: per esempio in bocca, per gustarne appieno il sapore, crudo o cotto che sia.
Non si tratta di modi di dire, ma pur sempre di salumi entrati di prepotenza nella cultura e nell’immaginario collettivo. La mortadella e la politica sono curiosamente spesso andate a braccetto. Il soffice insaccato originario dell’Emilia Romagna (anche se le sue radici più antiche provengono dal Lazio, dove ancora oggi si usa mangiarlo con i pistacchi) è entrato nel gergo nazionalpopolare della Seconda Repubblica grazie, suo malgrado, a Romano Prodi soprannominato appunto “mortadella”. Le origini di tale epiteto – anche in questo caso non troppo encomiastico malgrado la bontà del salume – sono probabilmente da ricondurre alla comune origine geografica dei due più che a una presunta somiglianza poi sfruttata e “calcata” dai vignettisti satirici. Resta il fatto, immortalato dalle foto di rito, che alla caduta del secondo governo Prodi nel 2009 in parlamento qualche senatore festeggiò trangugiando fette di mortadella.
Ma già negli anni ’70 la mortadella aveva fatto la sua singolare comparsa sulla scena politica, e non tra i seggi di Camera e Senato bensì in un luogo molto più “sacro” e privato, quello dove persino Stalin non ti poteva vedere: la cabina elettorale. Leggenda narra infatti che in occasione dello spoglio del referendum sul divorzio nel 1970, in un seggio di Vasto in provincia di Chieti gli scrutatori rinvennero con grande stupore una fetta di mortadella all’interno di una scheda elettorale: da allora l’inserimento di un salume nell’urna è diventato il simbolo del voto di protesta.